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ridire sopra il menomo dei suoi movimenti. Era pulito, lindo, odoroso come un’odalisca uscita dal bagno. Ad ogni movimento che facesse, il caic rimosso lasciava trasparire qui un po’ di color di rosa, là un po’ d’azzurro, qua un po’ di ranciato, tutti i colorini pomposi del vestimento nascosto, che mettevano una gran voglia di strappargli il velo per vedere che meraviglie ci avesse sotto, come fanno i bambini ai fantocci. Parlava con dolcezza, sorridendo e guardandoci senza apparenza di curiosità, come se ci avesse visti il giorno prima. Non era mai uscito dal Marocco, diceva che avrebbe visto volentieri le nostre strade ferrate e i nostri grandi palazzi, e sapeva che in Italia c’eran tre città che si chiamavano Genova, Roma e Venezia. Mentre egli parlava, si aperse la porticina ch’era dietro a lui, e fece capolino una bella ragazzetta mulatta di dieci o dodici anni, che volse intorno rapidamente due grand’occhi spaventati e curiosi, e disparve. Era una figliuola del governatore e d’una nera. Il governatore se n’accorse e sorrise. Seguì un lungo intervallo di silenzio. In mezzo alla stanza fumava l’aloè nei profumieri; davanti alla porta v’era un drappello di schiavi attoniti; dietro agli schiavi s’alzava un gruppo di palme; dietro le palme rideva il sereno purissimo del cielo d’Africa. Tutt’a un tratto, non so come,