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fermammo; venne verso di noi. Quando ci fu dinanzi, vedemmo che aveva una grossa spranga di ferro, lunga un par di palmi, fissata alle gambe con due anelli posti sopra la noce del piede.

Era un ragazzo macilento, sudicio e di fisonomia sgradevole. L’ambasciatore lo interrogò per mezzo dell’interprete.

— Chi ti ha messo quel ferro?

— Mio padre, — rispose arditamente il ragazzo.

— Per che motivo?

— Perchè non imparo a leggere.

Stentavamo a credere; ma un arabo della città, là presente, confermò la risposta.

— E l’hai da quanto tempo?

— Da tre anni, rispose sorridendo amaramente.

Pensammo tutti che fosse una bugia. Ma l’arabo confermò la cosa aggiungendo che il ragazzo dormiva pure col ferro e che tutti in Alkazar lo conoscevano.

Allora l’Ambasciatore, mosso a compassione, gli fece un discorsetto, esortandolo a studiare, a togliersi quella vergogna, a non disonorare in quel modo la sua famiglia; e quando l’interprete ebbe finito di tradurre, gli fece domandare se aveva qualcosa da rispondere.

— Ho da rispondere, — rispose il ragazzo,