chiamato dagli arabi con quel nome oltraggioso che significa terra salata o maledetta. L’Ambasciatore accetta. Passiamo sotto una porta a volta, c’innoltriamo per un labirinto di vicoletti più miserabili, più luridi, più fetenti di quei della città araba, in mezzo a case che paion tane, a traverso piazzettine che paion stalle, dalle quali si vedono dei cortili che paion fogne; e da ogni parte di questo immondezzaio s’affacciano donne e ragazze bellissime, che ci sorridono e mormorano: — Buenos dias! Buenos dias! In alcuni punti siamo costretti a turarci il naso e a camminare in punta di piedi. L’ambasciatore è indignato. — Come mai, — dice al vecchio ebreo, — potete vivere in questo sudiciume? — È l’usanza del paese, — quegli risponde. — L’usanza del paese! Vergogogna! E voi chiedete la protezione delle Legazioni, parlate di civiltà, chiamate i mori selvaggi! Voi che vivete peggio di loro, e avete la sfrontatezza di compiacervene! — L’ebreo abbassa il capo sorridendo come per dire: — Che strane idee! — Usciamo dal Mellà, la folla torna a circondarci. Il viceconsole fa una carezza a un bambino: molti fanno segno di meraviglia; si alza un mormorio favorevole; i soldati sono costretti a disperdere la ragazzaglia che accorre da ogni parte. Prendiamo a passo affrettato una strada deserta, la gente a