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moresche. In questo piccolo spazio si concentra tutta la vita di Tangeri, che è la vita d’un villaggio. V’è là vicino il solo tabaccaio della città, la sola spezieria, il solo caffè, che è una stanzaccia con un biliardo, e la sola cantonata dove si veda qualche volta qualche annunzio stampato. Là si raccolgono i monelli seminudi, i ricchi mori sfaccendati, gli ebrei che parlano d’affari, i facchini arabi che aspettano l’arrivo del piroscafo, gl’impiegati delle Legazioni che aspettano l’ora del desinare, gli stranieri appena arrivati, gl’interpreti, gli accattoni. Là s’incontra il corriere che arriva cogli ordini del sultano da Fez, da Mechinez o da Marocco, e il servitore che vien dalla posta coi giornali di Londra e di Parigi; la bella dell’arem e la moglie del ministro; il cammello del beduino e il cagnolino da salotto; il turbante e il cappello cilindrico; l’onda sonora del pianoforte che erompe dalle finestre d’un Consolato e la cantilena lamentevole che esce dalla porta della moschea. Ed è il punto dove l’ultimo flutto della civiltà europea s’infrange e ristagna nell’immensa acqua morta della barbarie affricana.
Dalla piazza, rimontando la strada principale, e passando per due vecchie porte, uscimmo, che cominciava a imbrunire, dalle mura della città, e ci trovammo in una piazza aperta sul fianco d’una collina, chiamata Soc de Barra,