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fiacchezza delle Autorità, il povero arabo era rimasto nelle stesse peste di prima; fatto anzi vittima di nuove accuse e di nuove persecuzioni. Ora la presenza dell’Ambasciatore dovera sciogliere il nodo.

Tutti e due furono ammessi a dire le proprie ragioni: gl’interpreti traducevano rapidamente.

Nulla si può immaginare di più drammatico del contrasto che presentavano le figure e il linguaggio di quei due personaggi. L’arabo, un uomo sui trent’anni, infermiccio, d’aspetto triste, parlava con una foga irresistibile, tremando, fremendo, invocando Iddio, battendo i pugni in terra, coprendosi il viso colle mani in atto di disperazione, fulminando il suo nemico con sguardi che nessuna parola può esprimere. Diceva che aveva corrotto i testimoni, che aveva intimidite le autorità, che lo aveva fatto imprigionare per estorcergli dei denari, che come lui aveva fatto cacciare in prigione molti altri per poter violare le loro donne, che aveva giurato la sua morte, ch’era il flagello del paese, un maledetto da Dio, un infame, e così dicendo mostrava sulle braccia e sulle gambe nude le traccie dei ferri della prigione, e l’angoscia gli strozzava la voce. Il nero, una figura di cui ogni tratto confermava una di quelle accuse, ascoltava senza guardare, rispondeva senz’alte-