del signor Vincent, francese, domiciliato a Tangeri, uno di quei personaggi misteriosi che han girato tutto il mondo, parlano tutte le lingue e fanno di tutti i mestieri: cuoco, negoziante, cacciatore, interprete, scopritore d’iscrizioni antiche; aggregatosi con tenda e cavallo all’ambasciata italiana in qualità di alto direttore delle cucine, per andare a vendere al governo di Fez delle uniformi francesi comprate in Algeri. Guardai dentro per uno spiraglio. Era seduto sopra un baule in atto meditabondo, con una grossa pipa in bocca, al chiarore d’un moccoletto confitto in una bottiglia. Che strana figura! Mi richiamò alla mente quei vecchi alchimisti dei pittori olandesi, che meditano in fondo alla loro officina, col viso illuminato dal foco dei lambicchi. Curvo, secco, ossoso, pareva che ogni peripezia della sua vita fosse rappresentata da una ruga del suo viso e da un angolo del suo corpo. Chi sa a che pensava! Chi sa che diavolìo di memorie, di viaggi avventurosi, di bizzarri incontri, di pazze imprese, di strani personaggi, gli turbinava nel capo! — Forse anche, invece che a tutto questo, pensava al prezzo d’un paio di calzoni da turcos o alla sua scarsa provvigione di tabacco. — Nel punto che stavo per dirigergli la parola, spense il lume con un soffio e disparve nell’oscurità come un mago.