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servo, un giovane arabo d’aspetto gentile e pensieroso, che teneva fra le mani una chitarra. Era lui che cantava. Nel mezzo c’era un vassoio con un bel servizio da tè, da una parte fumava un profumiere. Spiegai al Ducali in che maniera fossi capitato vicino alla sua tenda, rise, mi offerse una tazza, mi fece sonare un’arietta, mi augurò buon viaggio, ed uscii. La tenda si richiuse e mi ritrovai nell’oscurità silenziosa dell’accampamento. Girai intorno a un’altra tenda, dove dormivano gli altri servi del Ducali, e mi rivolsi verso quella dell’ambasciatore.

Davanti alla porta dormiva Selam, disteso sulla sua cappa turchina, colla sciabola vicino al capo. — Se lo sveglio, e non mi riconosce subito, — pensai — m’accoppa! Usiamo prudenza. — M’avvicinai in punta di piedi e misi il capo dentro la tenda. La tenda era divisa in due parti da una ricca cortina: di qua serviva di sala da ricevimento, e v’era un tavolino con tappeto, carta, calamaio, e alcune poltrone dorate; di là dormivano l’ambasciatore e il suo amico ex-ministro di Spagna. Pensai di lasciare il biglietto di visita sul tavolino. M’avvicinai. Un maledetto grugnito mi arrestò. Era Diana, la cagna dell’ambasciatore. Quasi nello stesso punto la voce del padrone domandò: — Chi è?