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di chitarra. Veniva da una tenda chiusa, che non avevo mai vista, posta fra la nostra e quella dell’ambasciatore, una trentina di passi fuori del cerchio dell’accampamento. Mi avvicinai e tesi l’orecchio. La chitarra accompagnava un filo di voce dolcissima che cantava una canzone araba piena di malinconia. Di chi era quella tenda misteriosa? Che ci fosse dentro una donna? Feci un giro intorno. La tenda era chiusa da ogni parte. Mi stesi in terra per guardare per disotto; chinandomi, tossii; il canto cessò. Quasi nello stesso punto una voce soave, vicinissima a me, domandò: — Quien es? (Chi è?) — Allà mi protegga! — pensai — qui c’è una donna. — Un curioso! — risposi coll’inflessione più patetica della mia voce.... Una risata mi fece eco, e una voce maschile disse in spagnuolo: — Bravo! venga a prendere una tazza di tè! — Era la voce di Mohammed Ducali. Oh delusione! Ma fui subito compensato. S’aperse una porticina e mi trovai sotto una bellissima tenda, rivestita d’una ricca stoffa a fiorami, ornata di finestrine ad arco, rischiarata da una lanterna moresca, profumata di belgiuino, degna per ogni verso di ospitare la più bella odalisca del Sultano. Accanto al Ducali, sdraiato voluttuosamente sopra un tappeto di Rabat, col capo appoggiato sopra un ricco cuscino, stava seduto un suo