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rono su, rivolti verso l’oriente; si soffregarono tre volte le mani, le braccia, la testa e i piedi con una manata di terra, e poi cominciarono a recitare a bassa voce le loro preghiere inginocchiandosi, rizzandosi in piedi, prostrandosi col viso sull’erba, alzando le mani aperte all’altezza delle orecchie, e accoccolandosi sulle calcagna. Poco dopo uscì dalla sua tenda il comandante della scorta, poi i servi, poi i cuochi; in pochi minuti la maggior parte della popolazione del campo fu in piedi. Il sole, appena spuntato sull’orizzonte, scottava.


Rientrando nella tenda feci la conoscenza di parecchi personaggi assai curiosi, di cui mi occorrerà di parlare sovente.

Il primo a comparire fu uno dei due marinai italiani, ordinanza del comandante di fregata, siciliano, nato a Porto Empedocle, di nome Ranni, un giovanotto di venticinque anni, di alta statura, di forza erculea, d’indole buonissima, sempre grave come un magistrato, e dotato della singolare virtù di non stupirsi di nulla, di trovar tutto naturale, come il Goe delle Cinque settimane in pallone, di meravigliarsi soltanto della meraviglia degli altri. Per lui, Porto Empedocle, Gibilterra, l’Africa, la China dov’era stato, la luna se ce l’avessero portato, erano la stessissima cosa.