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68 | la madre. |
fra due mani malferme e sotto due occhi dilatati e luccicanti di due belle goccie di pianto. Lesse la lettera rapidissimamente seguendo col moto della testa il serpeggiamento dell’occhio e borbottando affollatamente le parole; lettala, la strinse fra i pugni e lasciò cadere ambe le braccia alzando i grandi occhi al cielo, e quelle due grosse goccie, dopo aver tremolato incerte sulla palpebra, caddero, gli corsero le guancie senza disfarsi, e gli si vennero a sciogliere calde calde sulle mani. La lettera era di sua madre e diceva: «Domani verrò in città, a piedi; sono quattro anni che non ti vedo! Oh, figliuolo, io non posso più stare; ho tanto bisogno di gettarti le braccia al collo!»
Quella notte non potè chiuder occhio. Si cacciò sotto le coltri irrequieto, e non trovò posa, e non fece che scontorcersi e voltarsi ora sull’uno, ora sull’altro fianco, ora supino, ora bocconi; sempre invano, chè la coperta gli parea grave grave, e si sentiva addosso una gran caldura, un gran peso sul petto, una irrequietezza, una smania di moto, un’avidità tormentosa d’aria aperta.
Afferrava ogni momento la rimboccatura della coperta e la spingeva in giù fino al ginocchio, sospirando, soffiando, chè gli pareva di giacere accanto ad una fornace.
Di tratto in tratto si metteva a sedere sul letto e guardava intorno i compagni: dormivano tutti un sonno quieto e pieno, quale si suol dormire in primavera.
Guardava quel po’ di cielo stellato che appariva per un’angusta finestra della parete opposta, e pensava: oh, se fossi in campagna a respirare quell’aria! Guardava una lucerna posta in un angolo lontano, la quale mandava intorno una luce tremola che appariva e spariva a vicenda, e gli pareva che quella luce gli crescesse l’affanno e facesse il tempo più lungo. Poi si stendeva di nuovo nel letto e si metteva a pensare al dimani, chiu-