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464 il più bel giorno della vita.

venne una monaca a darmi da bere; — vi sentite molto male? — mi domandò, vedendomi gli occhi rossi. — Perchè vi scoraggiate così? che cos’avete? — Ah! sorella — risposi scrollando la testa; — io sono un disgraziato, ecco quello che ho! — Eh via! fatevi animo, — ella rispose, e poi soggiunse sorridendo: — non sentite che c’è della gente che canta per farvi stare allegro? — Io tesi l’orecchio, e sentii una voce lontana, dalla strada, da una casa della parte opposta, una voce di donna che cantava, una voce debole, ma che pareva facesse uno sforzo per farsi sentire; il sangue mi si rimescolò, il cuore mi cominciò a battere forte, mi prese come un affanno violento, mi sforzai, mi sforzai, e finalmente mi diedi giù a singhiozzare e a ridere come un bambino, appoggiando la testa sulle braccia della sorella, che mi guardava tutta maravigliata. — Oh Luisa!... sei tu, — esclamai ricadendo sul guanciale; — sia benedetto il cielo! —

Il colonnello respirò come se anch’egli in quel punto si sentisse liberato d’un affanno.

— Da quel giorno cominciai a star meglio; i miei amici che volevano vedermi furono lasciati venire; in capo a una settimana mi potei levare. Il mio primo passo fu verso la finestra. Era una delle più belle mattinate di aprile. Mi accostai all’inferriata tremando, mi afferrai prima ai ferri colle mie mani smunte e bianche, e poi guardai all’ultimo piano della casa dirimpetto. C’era! Pareva che mi aspettasse! Stava appoggiata al davanzale col viso rivolto alla mia finestra; mi guardò attentamente; pareva che non mi riconoscesse, che fosse incerta, agitata; si stropicciava le mani, sporgeva la testa a destra e a sinistra, e se ne andava, e tornava, e non si dava pace. Io colsi un momento che non avevo nessuno intorno e avvicinato il viso alla grata