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274 | il mutilato. |
S’introduce la gamba monca (due stecche che stringon fra loro e tengon ferma la coscia sul suo sostegno); ora, impugnata una gruccia presso al puntale, ne andava battendo leggermente il manico sulla punta del piede.... Ma già da un po’ di tempo risentiva un lieve dolore all’estremità di quella povera coscia, comunque l’avesse accuratamente ravvolta in certe pezzuole di cui gli avean riempite le tasche all’uscir dallo spedale; e però, quasi senza addarsene, sfibbiò un’ultima volta le cinghie, allungò il braccio, tolse quello sciagurato arnese, lo sollevò, e se lo pose allato. Rimasta libera la coscia, il dolore si attutì.
E il carro andava, andava, ed egli, senza darsi altro pensiero, passava e ripassava la mano sulla coscia come per addormentare quel po’ di dolore che ancor vi rimaneva, quando, levati gli occhi, si tramutò improvvisamente nel volto, giunse le mani, die’ un grido e stette immobile, come una statua, in quell’atto. Aveva veduto il tabernacolo di quella sera; era ritornato in sè stesso; tutte le memorie, già da qualche tempo sopite, gli si erano, in quel punto, ridestate tumultuosamente, e il suo cuore, assalito all’improvviso da una folla di affetti violenti, gli avea dato una terribile scossa. Guardò lungamente il tabernacolo colla faccia pallida e gli occhi dilatati e le labbra tremanti; poi tese le braccia in atto supplichevole e gridò: — Oh Gigia! Oh mia Gigia! — e ricadde bocconi sul carro.
In quel punto un grido acuto gli ferì l’orecchio e gli rimescolò il sangue da capo a piedi. Levò la testa, guardò, intravide, afferrò la gamba di legno, vi cacciò dentro la coscia, adunghiò colle dita convulse le cinghie, tentò, tentò, non riusciva ad affibbiarle, Dio mio! non riusciva; e intanto tutta quella gente si avvicinava, colle braccia aperte, colla bocca preparata ad un grido di gioia che non potea mandar fuori; e oramai il poveretto