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262 il mutilato.


A giudicare dall’atteggiamento suo e della giovinetta, e dai lunghi silenzi che frapponevano alle poche e sommesse parole, pareva ch’essi da lungo tempo fossero là. Sulla via, nè presso a loro nè lontano, non c’era anima viva, e vi regnava un silenzio profondo. Solamente, di minuto in minuto, s’udiva un suono confuso di voci lontane, che veniva da una casa posta ai piè della china, dove appariva e spariva a vicenda qualche lumicino; erano contadini di ritorno dai campi, che, riponendo gli arnesi e spingendo i buoi nelle stalle, parlavano forte fra loro da una parte all’altra dell’aia. Ad un tratto il soldato si staccò dal muro, e, presa per ambe le mani la giovinetta che si levò subito in piedi, le disse con quell’accento di timida pietà che si suol dare alle parole annunziando a una persona cara alcun che di doloroso: — È tardi, sai, Gigia. È ora ch’io vada. Domattina bisogna ch’io mi trovi in città per tempo, e la via è lunga.

Ciò detto, si tacque e guardò nel volto la poveretta. Ella, senza far motto, gli si fece vicina, gli posò tutt’e due le mani sopra una spalla, e vi lasciò cader sopra la fronte, e singhiozzò. — Coraggio, Gigia. Fatti coraggio. Due schioppettate e si torna.

— Si torna! — diss’ella sollevando lentamente la testa e lasciandola tosto ricadere. — Chi lo sa! — soggiunse poi con voce di pianto soffocata fra le mani.

Seguì un minuto di silenzio, dopo di che il soldato ripigliò: — Dunque.... a rivederci, Gigia. — Le posò le mani sulle tempie, le sollevò la testa, la baciò sulla fronte, si chinò, prese lo zaino, se lo mise sulla schiena passando un braccio al di sopra del capo, affibbiò le cigne, si chinò un’altra volta per prendere l’involto e, porgendo la mano alla fanciulla, fece atto di partire. Essa che in quel frattempo s’era coperto il viso colla cocca del grem-