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162 una marcia notturna.


Strana, ma pur vera emozione! Traversate di notte, dopo una marcia lunga e penosa, un villaggio; passate, stanchi, spossati, assetati, sordidi di polvere e di fango, disavvezzi da molto tempo da ogni gentile costumanza e da ogni diletto della vita cittadina, passate dinanzi a un caffè; e vi batterà il cuore d’una certa tenerezza, d’un certo struggimento malinconico, quasi d’una mesta pietà di voi stessi, e lancierete in quel caffè uno sguardo avido, invidioso, bieco d’amore collerico, come fanno i bambini; e serberete per molto tempo in mente l’immagine del loco, degli oggetti e delle persone.

Quello là era un caffè ampio, illuminato, luccicante di specchi, pieno di uffiziali di stato maggiore e di aiutanti di campo, coperti d’oro, d’argento, di ciondoli, di pennacchi, di medaglie e di croci; altri dentro, altri sulla soglia, altri fuori sulla piazza, e facevano tutti un continuo dimenar di braccia e di gambe e un chiassoso strascicare di sciabole. Un denso nuvolo di fumo avvolgeva ogni cosa; si vedeva e si sentiva un gran stappare di bottiglie di birra, e un affaccendarsi e un correre di fattorini, rossi nel viso, trafelati, confusi dalla frequenza e dalla splendidezza insolita degli avventori; un girare e rigirare alla pazza dal di dentro al di fuori, dal di fuori al di dentro, chiamandosi, garrendosi gli uni cogli altri, che non sapevano più dove avessero la testa; e sul dinanzi della porta una folla di popolo con tanto d’occhi e di bocca aperta a contemplare i galloni più larghi e i petti più medagliati. E in fondo al caffè, proprio in fondo in fondo, in un angolo, dietro a un tavolino circondato dagli uffizialotti più giovani, sopra una sedia rialzata, in una specie di nicchia, di tempietto, un bel visino di fanciulla su cui combattevano amabilmente il pudore e la civetteria, in mezzo a