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156 una marcia notturna.

lano inerti e senza forza. La mente a poco a poco gli si chiude, le immagini gli s’intorbidano, gli si confondono, gli si trasformano l’una nell’altra bizzarramente. Al suo sguardo velato di sonno traballano in confuso i soldati che camminano davanti ed ai fianchi; e gli alberi e le case dall’una e dall’altra parte della via, di cui appena si discernono i neri contorni, gli presentano certi aspetti deformi, mirabili, strani. Alle volte egli segue ancora coll’occhio le mura d’una casa quand’elle sono già d’un buon tratto passate, o gli par di veder nereggiare un casolare o un folto d’alberi dove non è. Tal’altra volta gli si para improvvisamente dinanzi, proprio nel mezzo della via, proprio lì sul suo passo, un grande ostacolo, una gran cosa nera, ch’ei non sa che sia; ma ei la vede, ma ella c’è, eccola, è lì, proprio lì, sta per darci contro col capo; si sofferma, stende il braccio, lo agita... nulla, non c’era nulla; tira innanzi. Trenta, cinquanta, cento passi, poi daccapo a sonnecchiare. E questa volta sogna. E gli pare di camminar solo, diretto non sa dove, o d’essere in tutt’altro luogo che là, lontano di là, forse a casa, in mezzo a tutt’altra gente, di giorno... Ad un tratto, gli colpisce l’orecchio il rumore delle pedate d’intorno; s’accorge, come d’improvviso, del tintinnar dei gamellini; si desta, gira lo sguardo, si ravvede, sbadiglia, ripiglia il passo, e, — poco dopo, — daccapo. Col mento inchiodato sul petto, una mano in tasca, l’altra sull’elsa della sciabola, va innanzi, abbandonato al suo peso, a passi ineguali, a sbalzi, tentennando, serpeggiando, tre passi di qua, quattro passi di là, — cinque — sei, — giù, una gran spallata nello zaino a un soldato. Si scuote, si sveglia, lo guarda un momento cogli occhi stralunati, si ravvede, si vergogna, scrolla la testa in atto di compatire se stesso, e poi ripiglia l’andare a passo franco e spedito.