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UNA MARCIA NOTTURNA.



Che notte! Nè luna, nè stelle, un buio d’inferno; non s’era mai visto una tenebra più fitta. Comunque non corressero che i primi giorni di ottobre, pure tirava una brezzolina d’autunno avanzato, e la si sentiva batter nel viso sorda e sottile, e scorrer sotto i panni, e raggrinzare le carni. Si era intorno alle nove della sera; il reggimento aveva disfatto le tende e se ne stava schierato a traverso il campo, colle armi al piede, aspettando l’ordine di partire. I soldati, desti pur allora da un sonno scarso e disagiato, se ne stavan là tutti curvi, raggranchiti, freddolosi, con una cera agra e scontenta, colle mani in tasca e i fucili abbandonati sul braccio; e invece del consueto cicalìo, così vivace ed allegro, non s’udiva che un bisbigliar rado, sommesso e svogliato. Era sì fitto il buio che, a guardar quel campo di sulla strada, non vi si scorgeva che la lunga fila delle lanterne appese in cima ai fucili, ciascuna delle quali illuminava intorno a sè quattro o cinque faccie piene di sonno. Laggiù, in un angolo del campo, oltre l’ala estrema del reggimento, si vedevano muovere in un piccolo spazio molti lumicini, da cui era debolmente rischiarato un confuso affaccendarsi di persone d’abito vario attorno a certi carri e a certe casse: i bagagli del vivandiere. Qua e là pel campo luccicava ancora qualche fiammella; eran gli ultimi guizzi dei fuochi che