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il coscritto. 143

sando a quel che aveva da dire; ma gli si leggeva il cuore negli occhi.

L’ufficiale capì, e con una voce affabile che gli scese e lo scosse nel più profondo dell’anima, gli domandò:

— Che cos’hai? —

Gli si ruppe il nodo alla lingua, e animandosi poi a grado a grado, cominciò con voce commossa: — Ho...; senta, signor ufficiale; ho che.... non so nemmeno io quello che ho; ma ci trattano in un modo che fa dispiacere, ecco. A domandare una cosa, non rispondono, e poi ci dicono delle parole che offendono, e bisogna stare zitti, se no la prigione eccola là (e imitava la voce del caporale). Lo so anch’io che non ci sappiamo ancora vestire, e non siamo ancora buoni a fare i soldati; ma sono soltanto due giorni che siamo qui; che colpa ci abbiamo noi? ci possiamo qualcosa noi? Si sa; siamo venuti apposta per imparare, e bisognerebbe che avessero un po’ più di pazienza, mi pare. E poi ci burlano in presenza della gente, e mettono anche le mani addosso, e ci danno degli urtoni, e noi dobbiamo sopportar tutto, e loro ridono, e io non so capire perchè ci maltrattino così. Io era venuto volentieri a fare il soldato, e dicevo dentro di me: Farò il mio dovere, e i superiori mi vorranno bene; ma adesso che vedo.... Forse quando ci avremo fatta l’abitudine, non ci baderemo più; ma adesso ci fa male di vederci maltrattare in questo modo. Eravamo assuefatti a casa, colla famiglia, e tutti ci volevano bene, e qui, invece,... burlano anche i nostri.... pazienza noi.... ma.... fa pena, ecco, fa troppa pena! —

Quest’ultime parole furon pronunciate con un accento veramente sconsolato: tacque, e abbassò gli occhi continuando a borbottare tra sè.

L’ufficiale lasciò passare qualche momento in silenzio, accese un sigaro, e poi, con un fare trascurato