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L’educazione del cuore |
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tutti i fanciulli, sian pure selvatici, e rende talvolta cari anche i tristi. Ma qui pure intoppò in difficoltà non previste. In alcuni, certo, in date occasioni, egli riusciva a produrre un buon effetto, o di pentimento o di altra commozione affettuosa e nobile, parlando loro il linguaggio del cuore, ragionandoli con pazienza e con eloquenza amorevole. Ma come tornava difficile, anche a lui, il tener questo modo! Egli riconobbe che gli occorreva per ciò, come ad un artista, una disposizione di nervi e d’animo, un certo stato di contentezza di sè e quasi d’ispirazione, da cui il più leggero malessere fisico, una piccola contrarietà, e anche soltanto un pensiero malevolo, sortogli improvvisamente e come a caso nel capo, bastavano a farlo uscire per un’intera mattinata. E allora ogni sforzo ch’egli facesse sopra sè stesso era inutile: le parole dolci e persuasive non venivan più su, o uscivan senza calore e senza schiettezza, e non entravan più negli animi; e quel che era peggio, egli s’accorgeva, che, dicendole in quella maniera, non solo le sciupava lì per lì, ma ne sperdeva avanti l’efficacia per quell’altre occasioni in cui le avrebbe pronunciate con sentimento. E trovava pure una difficoltà a quella maniera d’educazione in certi mutamenti psichici della sua scolaresca, che gli si mostrava qualche volta apatica e restia tutta quanta, e come svanita di mente e indurita di cuore, tanto che non gli riusciva con alcun mezzo di scoterla e di tenerla attenta. Era una diminuzione momentanea del famoso fluido nervoso di Erberto Spencer, del quale aveva inteso parlare alla scuola? Ma questa diminuzione da che cosa derivava, così, in tutta la classe? Egli non lo capiva, e non ci trovava rimedio; ed eran ore di scuola perdute, che lo lasciavan pieno d’amarezza. Poi, fra i più grandi, gli si cominciarono a rivelare alcuni caratteri, sui quali nessun atto o discorso amorevole o ragionamento poteva, e che se avevan qualche cosa di buono, non c’era via nè diritta nè traversa per arrivarvi: parevan creature d’un’altra razza da quella degli altri; strumenti musicali sconosciuti, ch’egli non sapeva indovinare da che parte dovesse toccarli per cavarne un suono qualunque. E ci si tormentava attorno inutilmente. E, ancora ingenuo, domandava loro qualche volta, con accento paterno: —