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Il sindaco Lorsa 97

quando afferravano il potere nei comuni, la combattessero. Egli non sapeva, lì per lì, darsi altra spiegazione che quella di una ripugnanza naturale che essi provassero ad occuparsi d’una materia della quale non s’intendevano, e in cui, per conseguenza, dovevan prender lezioni da tutti. Le ragioni vere, che eran tutt’altre, egli non aveva sufficiente esperienza del mondo da poterle scoprire da sè. Il sindaco di Camina, come molti altri, era uno di quegli ambiziosi risaliti, nei quali, a un segreto desiderio di tener bassa nell’estimazione pubblica la classe su cui si sono inalzati, appunto per far parere più alto, e dovuto a meriti rarissimi, il loro inalzamento, s’unisce un dispregio sincero della cultura che non hanno, non solo perchè, avendo fatto fortuna senza di quella, la ritengono inutile, ma perchè credono davvero che essa indebolisca e fuorvii le facoltà semplici e rudi con cui essi sono riusciti; oltrechè l’odiano perchè nasce dal paragone di chi la possiede la non sufficiente estimazione in cui pare a loro d’esser tenuti nel mondo. Al signor sindaco Lorsa, del bel numer uno, venuto su per forza d’ingegno naturale, e con una costanza ferrea di quarant’anni nella fatica e nella parsimonia, parevano ridicolaggini tutte quelle quisquiglie grammaticali, quell’agronomia letteraria, quell’arruffìo di cognizioni generali ed astratte, in nome delle quali si promettevano tante cose ai ragazzi nati nella sua condizione. Delle centinaia di ragazzi ch’erano andati a scuola nel suo paese dopo ch’era data fuori questa febbre dell’istruzione pubblica, egli non n’aveva visto uno solo, che avesse fatto una riuscita straordinaria; e questo era il suo grande argomento. Incapace di comprendere gli effetti lontani del lento accumularsi delle cognizioni e delle idee di generazione in generazione, e del perfezionarsi continuo delle facoltà intellettuali ereditate e trasmesse, cercando egli soltanto i frutti immediati e palpabili, non gli pareva che questi valessero le noie che la scuola recava alle Autorità, il disturbo che portava alle famiglie, e il vampo enorme che se ne menava. Gli pareva, anzi, una vera e propria ciurmerìa. Per lui, ispettori, provveditori, programmi, premi, discorsi... eran ciarlatani e ciarlatanate. Era in piena buona fede. E in queste idee lo teneva fermo in particolar modo l’esperienza dei propri figliuoli.Fonte/commento: ed. 1890