discorso dell’insegnamento religioso, per vedere se il parroco intendesse d’immischiarsi nella scuola e che pretensioni accampasse. Ma alle prime sue parole capì che egli avrebbe avuto il campo libero affatto. Il parroco era uno di quei preti, di cui nei villaggi si dice che sono con l’Italia; il che non è vero che a mezzo, perchè sono, per necessità, con due Italie, con quella dei bianchi e con quella dei neri, e quel che è più strano, mantenendosi sinceri, o presso a poco, con gli uni e con gli altri. Aveva sessant’anni, era un grosso buon cristiano, cortese di quella cortesia che accarezza più dolcemente l’amor proprio; la quale consiste nel mostrar d’ascoltar con attenzione profonda chi ci parla, qualunque cosa dica, e tanto più se parla in presenza d’altri. Nonostante questa abitudine, era distrattissimo, e come sogliono essere i distratti, d’indole mite e facile. Era stato in gioventù un giocatore di bocce famoso in tutti i dintorni. Ed era ancora a tavola, come suol dirsi, una bella spada. Accettava inviti a scampagnate dai villeggianti, e celiava con tutti, ma senza troppo lasciarsi andare, fingendo di non sentire i discorsi grassi. In politica, poi, aveva delle formole fatte con le quali si cavava d’ogni impiccio contentando tutti, che era quello che più gli premeva. E n’adoperò immediatamente una col maestro, che era la sua preferita, a proposito del doppio principio a cui si doveva ispirare l’insegnamento. — Religione — disse, prendendo l’indice ritto della sinistra con l’indice e il pollice della destra, — e patria — prendendo il medio. Poi, congiungendo le due dita davanti al viso del maestro: — Patria e religione, riunite insieme — insieme — sempre insieme. — Così diceva sempre; e quando era costretto a dir di più, in certe quistioni particolari in cui volevano tirarlo a forza certi studenti d’università che venivano a villeggiare nel paese, faceva, con aria di bonarietà grave, una tale insalata di parole vuote, che nessuno ci capiva una maledetta.... Se insistevano perchè si spiegasse meglio, si stizziva. Era ben voluto. Gli studenti lo chiamavano: il patriotta evasivo. In certe notti d’estate gli andavano a far delle serenate sotto alle finestre, lo obbligavano a alzarsi da letto, e gli gridavan dalla strada, rifacendo il suo gesto abituale con le dita: