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Miserie 225

un maestro d’un comune dell’Italia meridionale, che, non ricevendo mai un centesimo di stipendio, era accolto per carità alla mensa degli ufficiali del distaccamento, in un antico monastero: gli ufficiali che se n’andavano, lasciavano in eredità la sua fame a quelli che venivano, e così egli campava da due anni. E poi c’eran dei casi curiosi d’accumulamento d’impieghi e di mestieri: maestri bidelli, inservienti comunali, ciabattini, spaccalegne a ore perdute, e che con tanti cespiti d’entrata, si riducevano in un fondo di letto per essersi nutriti per un mese intero di fichi secchi andati a male. E anche dei casi di pitoccheria vergognosa. Che cosa dire d’una maestra, per esempio, che raccattava sotto i banchi, dopo uscite le alunne, brani di carta, ritagli di tela, pezzi di filo, e perfino i chicchi di gran turco che le monelle le tiravan per disprezzo? Un giornaletto della provincia la svergognava debitamente, senza farne il nome, dicendo che disonorava la scuola, e diceva di più che portava gli zoccoli in casa e si fabbricava le formelle da sè con degli avanzi di carbone e di stoppia: cose che toglievano a lei ogni autorevolezza e offendevano il decoro del comune. Ma, pur troppo, c’eran delle cose più tristi: dei maestri di più d’ottant’anni, messi sul lastrico dopo cinquantott’anni d’insegnamento, perchè non più atti al servizio per sordità; delle maestre fatte bastonare spietatamente da parenti d’alunne rimandate agli esami; una, condotta a tal punto dalle persecuzioni e dagli stenti, che s’era date tre forbiciate nel collo in presenza delle sue bambine, e un’altra che aveva piantato lì la classe improvvisamente, e, corsa nell’atrio della scuola, s’era gettata nel pozzo, e le scolare avevano sentito il tonfo. Tutta questa processione miseranda di affamati, d’infermi, di vecchi abbandonati, di ragazze disfatte sfilava alla fantasia accesa del giovane, nella mezza oscurità della sua povera camera, e gli pareva che gli dicessero l’un dopo l’altro: — Vieni con me, collega! Io vo’ ad accattare. — Vieni con me, io vo’ all’ospedale. — Vieni con me, io vo’ al camposanto. — E lo lasciavano oppresso da una grande tristezza.

Il romanzo d’un maestro. — I. 15