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l’era nostra, essa fu fatta destramente e scaltramente servire a intendimenti e scopi prettamente legittimisti.

I principi di questa casa ebbero, è vero, molti e grandi pregi, fra cui quello principalissimo dell’aver rilevata dalla sua secolar caduta dopo Alessandro la monarchia, ma ebbero anche gravi difetti. A Chosroe il grande, che regnò dal 530 al 578, devono molte cose e la scienza e la civiltà; ma tutto quanto il governo sassanidico, in quattro secoli e più, fu governo estremamente tirannico, estremamente gretto nei modi e negl’intenti, oppressor della plebe misera e lercia per impinguare il clero zoroastriano, intollerante e fanatico, e la nobiltà, gonfia d’orgoglio e alimentata di rapine. In quel tempo infelice, pur con qualche momento di gloria militare, quando la tracotanza degl’imperatori greci fu umiliata dai monarchi persiani, tutto ciò che il paese aveva e di bello e di grande e d’illustre, si volle volgere forzatamente a pro della casa regnante, del clero e della nobiltà, pur di coonestare, quasi indiandola, la visibile dignità e potenza di chi sedeva in trono e si faceva chiamare re dei re, figlio di Ahura Mazdâo, e di stirpe celeste e divina.

E allora la bella e vetusta canzone epica, che narrava di monarchi e di eroi del tempo antico, campioni in terra del Dio del bene, fu tutta volta, da compiacenti ricompositori o diaskevasti, posti a’ servigi del re, a rappresentare quanto grande, quanta sacra fosse e dovesse essere cotesta dignità sovrana, intangibile quaggiù, come cosa creata e voluta dal cielo. Allora, con un tratto abile e destro, tutta quanta la schiera degli eroi fu ordinata, per elucubrazion faticosa di abili genealogisti, in grandi famiglie di monarchi, succedentisi sul trono per diritto dinastico. Allora, raccolte così e riordinate e raffazzonate secondo tali intenti legittimisti, le tradizioni epiche formarono un libro, composto nella lingua iranica di quel tempo, la pehlevica, che fu detto il Khotây-nâmak, cioè il Libro dei Re, e fu riposto nei tesori regali e là custodito con cura gelosa.

Ma quale fosse e come fosse quel Libro dei Re, noi non lo sappiamo. Se, tuttavia, tanto si può congetturare dai pochi frammenti che ne rimangono, e dalle circostanze e dagl’intenti nelle quali e per i quali fu composto, esso dovette essere una ben povera cosa! Nuda, gretta, arida, spoglia di ogni ornamento dell’arte, dovette esserne la forma, cioè una povera e pedestre prosa, poichè è pur carattere peculiare di tutta quanta la restante letteratura pehlevica, copiosa veramente, di rifuggire da

13 — Rivista d’Italia, anno XII, voi. I, fasc. II (Febbraio 1909).