Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
396 | daniele cortis |
male: il corpo e l’anima. Quello scritto, ultimo tesoro che gli restava d’Elena, lo doveva leggere subito? Per un momento aveva pensato d’aspettar la sera, di riserbarlo per l’ora sconsolata.
Considerò la lettera. Era stata nelle sue mani, era una cosa sacra, per sempre. Vi posò le labbra. La considerò ancora, la baciò ancora, gittò uno sguardo e l’anima, un istante, laggiù nella pianura immensa, dietro a lei.
Aperse la busta. Non v’era che questo:
«D’inverno e d’estate, da presso e da lontano, fin ch’io viva e più in là. 18 aprile 1882.»
Cortis guardò le solenni parole, come impietrato. Il petto gli si venne gonfiando, il respiro diventò affannoso, una tempesta di dolore gl’irruppe alla gola. Si difese a morsi nelle labbra, a strette di convulse pugna nelle tempie; poche lagrime roventi gli oscurarono la pagina aperta sulle sue ginocchia.
Quando gli si snebbiò la vista era più sollevato. Una voce gli disse nel cuore: «S’ella tornasse un giorno, anche fra lunghi anni?» Immaginò il caro viso guasto dal tempo e dal dolore, bello per lui solo oramai, più dolce che nella giovinezza; immaginò la mano ancora giovane e gentile, la voce ancora soave, gli occhi stanchi e quieti, che dicevano ancora, ma quasi timidamente: «Fin che io viva e più in là.
E se accadesse ora qualche cosa per cui ella non partisse più?
Cacciò questo e ogni altro fiacco pensiero. Il sacrificio era stato liberamente voluto, per il bene; e la debole natura s’era sfogata abbastanza. Di più non voleva concederle. Si alzò risolutamente e discese,