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nel poema dell’ombra e della vita | 353 |
Cortis dovette far aprire e mostrar la villa a Clenezzi. Entrarono tutti in sala, scesero nel giardino francese, girarono intorno al bacino della fontana. A Cortis pareva che bastasse; ma Lao continuava a dire: «No, no, veder tutto, veder tutto.
Elena si fermò in sala.
«Vi aspetto qui» diss’ella.
Rimase sola, immobile, ascoltando le voci de’ suoi compagni dilungarsi per le stanze vuote. Quando le sentì lontane, trasse precipitosamente la lettera, l’aperse, corse alle ultime parole, la ripose in furia. Le voci lontane non tornavano. Trasse ancora la lettera adagio adagio, risalì dall’ultima delle quattro fitte pagine alla prima, alzando il viso ogni momento per ascoltare. Finito ch’ebbe di leggere, si giunse le mani sul petto.
«Dio, Dio!» diss’ella.
Udì avvicinarsi i passi e le voci, balzò fuori della sala, sedette sulla gradinata verso il giardino, di fianco alla porta, per non esser vista. Sedette lì davanti ai gigli, alle rose in fiore, al verde pendio della montagna, al getto d’acqua che pareva esso pure, come i fiori e il verde, una viva gioia pura della terra. Dio, come le batteva il cuore, con qual furia rintoccava: no, no, no! Intanto gli altri entravano in sala. Cortis diceva: «Cosa vuoi? Forse sarò quel matto.
Elena scattò in piedi, li raggiunse.
«Che matto?» diss’ella.
«Un matto che tornerà a Roma» rispose Lao, infuriato, «che si caccerà da capo nella politica e vi lascerà la pelle, spero, perchè se lo merita».
«Oh! fece Elena.