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rimedi che le aveva, nell’ultimo tempo, disperatamente opposti. Riposarsi e lasciar crollare tutto; altro partito non gli restava.

L’avvocato Boglietti gli aveva scritto il 25 stesso, giusta le intelligenze prese con Cortis, che si tenesse sciolto da ogni debito verso la Banca; ma il barone gli aveva rimandata fieramente la lettera, giurando che non accetterebbe mai le offerte del signor Cortis. Per verità non gliene veniva sollievo sensibile. Era invescato in troppi altri debiti e di natura non meno maligna. Pur di saldare le sue perdite al giuoco, pur di essere accolto ancora nelle bische più o meno segrete che frequentava, dopo essersi rivolto a’ più celebrati strozzini di Roma, aveva poste le mani su certi titoli di credito spettanti a minori nella sua tutela, ne aveva dato in pegno, ne aveva fatto danaro. Ora il fatto era venuto in luce, stava per denunciarsi. Intanto il macao gli aveva ingoiato tutto ed egli si trovava, malgrado tanti sacrifici, a non poter pagare i suoi impegni di giuoco. Non si giuocava più con lui; la porta della fortuna era chiusa, quella delle Assise, aperta.

Ma nella sua selvaggia natura, mista di forza e di corruttela, il fiero proposito di non piegarsi ai Carrè durava più saldo che mai. Tre ore prima che egli recasse le proprie dimissioni al Senato, l’avvocato Boglietti lo aveva affrontato in piazza di Pietra e tratto riluttante al proprio studio, allegando un’assoluta necessità di parlargli immediatamente. Colà gli aveva comunicata una proposta affidatagli in quel momento, non volle dire da chi. L’avvocato prometteva di ricomporlo con tutti i suoi creditori, di salvargli l’onore e la libertà, di fornirgli un sufficiente