Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
un intervento | 265 |
«Andiamo, andiamo, non dica delle fatuità. Adesso arriva il conte Carrè, se Dio vuole, e allora io me la cavo presto. Lei va a Napoli?
«Sì, signore.
«Buon viaggio, neh!
Il treno di Firenze entrò in stazione alle quattro e dieci. C’era calca, all’uscita, e fra la calca, c’era il senatore con la bocca aperta e con gli occhi sbarrati, fissi sulla corrente che usciva. Passavano faccie d’ogni età e d’ogni forma, esotiche e nostrali; faccie che tiravan via duri coi fastidi in fronte di quel pigia pigia, di quella curiosità; e mai non compariva la faccia pallida, con il gran naso aristocratico, con la barba nera. Gli occhi del senatore diventavan sempre più ansiosi. Oramai erano usciti quasi tutti, la folla s’era sciolta. Possibile? Si fece avanti, guardò, s’illuminò di piacere e andò incontro al conte Lao che veniva appunto l’ultimo, adagio adagio, fumando, con le mani in tasca e il bavero del soprabito rialzato. Lo seguiva un facchino carico di valigie, di scialli e di coperte.
«Caro conte» disse il senatore «io sono qui a riceverla a nome delle sue signore.
Lao gli fece un leggiero cenno di saluto, gli chiese subito:
«E Cortis?
«Ah, bene, bene! Oggi ne abbiamo 28, non è vero? Son passati tre giorni. Non c’è confronto col primo giorno.
«Manco male!» esclamò il conte Lao. «Però potevano telegrafarmi ancora, darmi altre notizie. Io credevo quasi di trovarlo morto!
«Ma, vede, non si sapeva quando lei fosse partito,