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figlia. Elena scattò su dal divano, raggiunse la contessa che dava il braccio al senatore Clenezzi e pareva reggersi appena.

«Oh Dio, Elena» diss’ella, «mi abbandonai in questo stato! Andiamo a casa, ti supplico. Io non ho più fiato, non ho più gambe: non posso far niente, non posso star qui!

«Coraggio, mamma» rispose Elena. «Ora non vengo. Verrò più tardi, potendo; quando si vedrà che piega prendono le cose. E poi tornerò, naturalmente. Io sono forte, posso assisterlo benissimo.

«Oh Signore, e adesso non vieni?

«Ma no, adesso prego il senatore di prendere una carrozza, e di condurti all’albergo.

«Si figuri, si figuri!» ripeteva il senatore colla sua onesta faccia grave, piena di dolore. «Dispongano. Io accompagno la contessa a casa, poi verrò a prender lei, se crede.

«Non occorre» s’affrettò a risponder Elena. «Io non le posso dire adesso, proprio con precisione, quando verrò.

«M’immagino» mormorò il senatore, accostando il viso a quello di lei «che a momenti capiterà qui la signora arrivata stamattina.

Elena trasalì.

«Non lo so, non so niente» diss’ella. «Io torno qui certo, a ogni modo.

«Elena, Elena» gemette sua madre, «pensa che non hai mica salute da buttar via neanche tu.

Elena aggrottò le ciglia, si strinse nelle spalle, sdegnosamente.

«Adesso vado» diss’ella, e guizzò via, scomparve nell’anticamera. Un momento dopo, scivolava dietro un usciere nella camera dell’ammalato.