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«Niente, niente» ripeteva l’altro, «sia tranquilla.

«Dov’è? Voglio vederlo» disse Elena convulsa. «Ci sono medici? Voglio assisterlo. È mio cugino.

«Ma sì, ma sì» insistevano gli altri, «lo vedrà, lo assisterà. C’è il ministro B., c’è G. Adesso non ha bisogno che di quiete, si calmi.

Due o tre altri deputati si aggiunsero a loro, fecero siepe intorno a Elena mentre il triste convoglio passava rapidamente, entrava nelle stanze della presidenza.

Elena se n’avvide, non parlò, fece l’atto di slanciarsi avanti verso la porta; fu trattenuta. Si ricompose subito, pregò T. di recarsi da sua madre, nella tribuna; pregò gli altri, con dolcezza, quasi sorridendo, di lasciarla entrare dal malato, parlare con i medici. Per lei, disse, l’incertezza era peggiore di qualunque dolorosa realtà. Allora fu lasciata passare rispettosamente. Qualcuno che saliva lo scalone e non la poteva vedere, disse forte: «L’han portato là? Cattivo augurio; è la camera del povero...

E nominò un giovane lombardo, pieno d’ingegno e d’ardore, colpito anche lui al suo posto di deputato e morto nella camera dove avevano portato Cortis. Elena udì, si fermò un momento, mettendosi la mano sul cuore, poi entrò in un’anticamera oscura piena di gente che parlava sottovoce. Qualcuno dava degli ordini da una camera a sinistra, ancora più oscura; tra questa e quella era un continuo andare e venire d’uscieri. Poca luce entrava per un altro uscio spalancato, da una stanza chiara, elegante. Elena piegò a sinistra verso quel signore che dava gli ordini. Egli le disse bruscamente: