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Invece di rispondere il conte Ladislao trasse di tasca uno specchietto e si avvicinò alla finestra.

«Oh no» diss’egli «mica pallido. Eh, niente. Solo un pochetto.

Era pallido infatti: d’un pallore accresciuto da due grandi occhi neri, dalla barba nera, corta ma foltissima, dall’alta fronte giallognola, dove i capelli brizzolati facevano appena una punta.

Voltò le spalle a sua nipote e si guardò la lingua.

«Sei bello, zio,» diss’ella. «Sei una bellezza; sta tranquillo.

Lo zio si voltò in fretta, si eresse.

«Dopo tutto» esclamò «se non fossi malato...

Era alto e di persona elegante; un gran naso aristocratico non guastava la sua fisonomia, tra sentimentale e beffarda.

«Se non sognassi di essere malato» disse la baronessa Elena.

«Ah, sogno? La faccio per piacere questa vita? Mi diverto io, a non digerire, il giorno, e a non dormire, la notte? Mi diverto a esser pieno di dolori tredici mesi all’anno? Sentili quei mascalzoni di preti! Oh mi diverto! Taci, vien qua, e suonami ancora la pastorale di Corelli.

Si sdraiò in una poltrona rintanata dietro un tavolino, nell’angolo più buio dell’ampia camera, più lontano dalla porta e dalle tre finestre. Alla sua dritta, il piano verticale, appoggiato al muro, era aperto.

«Non ci vedo, zio» disse Elena.

«Va là che la sai a memoria!

Egli si pose a canterellare il motivo della pastorale con una voce dolce, intonatissima, piena di sentimento.