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tra cefalù e roma 181


di Bivuto. Ma ora, per non ricadere, ci vorrebbero certi farmachi che l’infelice medicuzzo non tiene e il miserabilissimo speziale nemmeno. La mia cara Cefalù non è più aria per questa signora. Io l’ho scritto all’eccellentissimo signor barone, ma siccome V. S. ill.ma certo conosce tante cose e tante persone, così lo scrivo anche a lei. Il ragionamento, s’ella ci riflette su, è forse un poco cefalutano, ma buono.

Io credo che la signora non può avere qui una buona respirazione morale. Pare ora che la signora contessa sua madre, visto ch’ella, signor deputato, non può muoversi di Roma, intenda venir lei a portarsela via. La baronessa Elena sfavillava di gioia quando ebbe questa lettera; poi mi disse che non sarebbe mai più partita da Cefalù, e andò al balcone sul mare come per vedere il tramonto, ma in fatto per piangere, secondo il solito. Io non capisco. Teme ella di doverci restar per sempre, a Cefalù, o lo desidera? Ora si direbbe una cosa, ora l’altra. Ma ella conduce qui la più misera vita del mondo. Non vede nessuno tranne mia moglie che ha, poverina, una soggezione terribile, ed è una eccellente compagnia per me, ma non per la signora baronessa. In barca non ci può andare perchè si smarizza subito; cavalli non ne tiene; passeggiare non può ancora molto. Suonerebbe tutto il dì certe musiche barbare da fare sbadigliare la Sicilia intera, e lei ci si rimescola ch’è una pietà. Io vengo, la faccio smettere; ma poi passa per la via, com’è successo ieri, un mascalzone, cantando:

Ventu marinu, dimmi comu ha statu

e la signora mi si commuove peggio di prima. È vero