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gli affari del barone 161


che n’ebbe paura ella stessa; le parve di non appartenersi più, di essere diventata una parte di lui. E l’elezione? Daniele ne parlava scherzando, ma c’era lì e in altri luoghi della lettera una gaiezza nervosa che tradiva il turbamento dell’animo. Un impeto di sdegno, contro quegli stupidi elettori fe’ tremar le mani e le labbra mute d’Elena. Prima un impeto di sdegno, poi un impeto d’orgoglio; l’uomo ch’ella amava non poteva piacere alla folla. Però non le veniva neppur l’ombra d’un dubbio sull’avvenire. L’avvenire di Cortis non era certo in poche mani d’idioti. E questo c’era di buono e di confortante nella lettera, che vi si sentiva un’energia morale più forte dell’amore, un animo grande che poteva soffrire per l’abbandono di una donna, ma non accasciarsi, non declinare nella sua via. Così, così Elena lo amava! Quanto a sè, qualunque dolore, qualunque sorte le toccasse, non ne doveva importar niente a lei stessa, nè al mondo, nè a Dio.

Una fugace visione la smentì, le mostrò il laghetto cheto di Villa Cortis e, seduto sulla riva, Daniele. Ella gli sedeva a fianco, fuggita da Roma, da un marito indegno; le ombre dei giardini, il lago e i loro cuori erano una pace sola fin dentro alle più nascoste profondità. Cacciò con un subito aggrottar del ciglio la immagine. Non sarebbe mai! Cortis non doveva amar lei. Ella non poteva offrirgli, sacrificando sè, che un febbrile presente e un avvenire sinistro; anche solo lasciandosi amare idealmente, gli contristava la vita. Egli era solo al mondo e lo aspettavano, sulla via prescelta, fatiche, angoscie, ferite; come non avrebbe una famiglia per suo riposo e conforto? Bisognava farsi dimenticare. Pensò

Daniele Cortis. 11