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160 | daniele cortis |
avanti, una lettera piena d’affetto, di paure, di rimproveri. Cosa penserebbe adesso? Sull’angolo dei Due Macelli e del Tritone credette veder suo marito prendere frettoloso una viuzza a sinistra. Una breve vampa di collera le salì al viso. Sarà stata lì vicino questa casa di giuoco? Ella fu per scendere e raggiungerlo. Prevalse il disprezzo; lo lasciò andare. Rozzo, violento, vizioso, lo conosceva da un pezzo; ma gli aveva sempre attribuito una certa grossolana onestà, una brutale franchezza da barbaro; anche del cuore. Ora no; ora quel danaro altrui glielo rendeva immondo. Lo lasciò andare.
All’albergo trovò la lettera di Cortis. Lasciando a passo di Rovese quell’altro biglietto per lui, il suo proposito era stato d’irritarlo, di far sì che non le avesse a scrivere almeno per un gran pezzo. Nella lontananza, nel silenzio c’era da sperare; non per sè ma per lui. Trasalì, vedendosi fallito il disegno, di una gioia invincibile; e non sapeva ella stessa nell’aprir la lettera se avesse paura o desiderio di parole appassionate. La divorò prima da capo a fondo correndo via sulle poche espressioni d’affetto come se bruciassero; specialmente su queste: «non vi troverebbe una sola delle parole che posso aver detto a questa rosa moribonda, la quale non le riporterà.» Pensò che Cortis non avrebbe dovuto scrivere così; e, giunta alla fine, tornò di slancio alla prima pagina dov’egli parlava di sua madre, rilesse quelle poche righe sconsolate, ne ebbe un dolor profondo. Non sentiva più, in quel momento, i dolori proprii, nè la dolcezza di sapersi amata. Era tutta nel cuore di lui, soffriva con esso, sentiva quel disinganno, quella solitudine amara, la sentiva tanto