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«Ah, caro Clenezzi» sospirò Elena «se il danaro potesse tutto! Basta, poniamo che si trovi; io lo faccio avere a lei? Dopo ci pensa lei? Se occorresse ritirarlo dalla Banca Nazionale, me lo fa lei questo piacere.

Il senatore, che per donna Elena, e pur di non metter fuori quattrini, sarebbe andato nel fuoco, si pose con devozione commossa, agli ordini suoi. Guardò l’orologio. Quel giorno si doveva presentare al Senato il progetto di riforma elettorale, e forse si sarebbe discusso sulla composizione dell’ufficio centrale. Gli premeva trovarsi per tempo in Senato.

«Speriamo» diss’egli alzandosi.

«Cosa?» rispose Elena con un sorriso così amaro, con uno sguardo così triste che al povero senatore vennero quasi le lagrime.

«Che la mi scusi tanto!» esclamò. «Io sono un povero vecchio, io sono un povero fatuo, ma se lei fosse la mia ragazza, Madonna Signore! la porto su al mio paese com’è vero Dio, e quel muso che venisse a prenderla, in Brembo a pedate!

«No, no» diss’ella, bruscamente, quasi offesa. «Lei non mi conosce.

«E me?» ribattè il senatore. «Mi conosce? Vorrei vedere.

Parve ch’Elena avesse paura di discutere questo punto perchè s’affrettò a replicare:

«No, no, vada al Senato, vada al Senato» e toccò il bottone del campanello.

Rimase sola, ritta, in mezzo alla camera, fissando con il suo solito sguardo vitreo la piazza, il Tritone della fontana. Un cameriere aperse l’uscio e disse: «desidera?» Ma ella non rispose. Colui ripetè: «la signora baronessa desidera?