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148 | daniele cortis |
sdegno che non dirò. A ogni modo rassicura questa povera donna verso la quale sei forse, qualche volta, ingiusta.
Dio mio, Elena, perchè non ti ho trovata qui?
Perchè ti sei fatta scrupoli di lasciarmi una parola migliore?
Ho colto stasera una rosa presso alla porta del tuo studio. La sua delicata bellezza, recisa e posata qui sopra un barbaro volume di Hansard, muore con una gravità mesta che ricorda te in certi momenti. Pensai, guardando il tuo studio, al tempo passato e a quello che avrebbe potuto essere. Noi vivremmo fra le rose, Elena. È mai questa la sorte di anime come le nostre? Noi siamo temprati per la guerra e la tempesta, siamo armi in una mano ignota che non posa mai e non ci lascia posare, e come ci stringe!
Domani mattina vado a portare il mio vangelo sui monti. Predicherò a... e a... So che a te, altera creatura, questo non piace; ma non è uomo politico nè patriota chi non sa deporre a tempo e luogo queste deboli fierezze. Io sono altero quanto te, e se il mondo sapesse il cuore che ho quando sollecito i voti degli elettori assai mi loderebbe. Quand’anche poi gli elettori mi lasciassero, come oggi è probabile, a Villascura, non ne sarei accorato. Calcolo di avere ancora nei nervi trentacinque anni di vita politica; dovessi perderne due alla porta della Camera, non sarebbe una rovina. Però non dissimulerò a te, come la dissimulo agli occhi del mondo, una certa agitazione, uno spirito d’inquietudine, che fino a domenica mi lascerà probabilmente dormir poco.
Sai che la sera prima della mia partenza mi hai