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168 x. fuori dalla corrente

 Secondo una teoria molto accreditata, l’alfabeto romano (con scrittura verso destra) deriva con qualche modifica da quello etrusco, la cui scrittura procede verso sinistra. Quest’ultimo sarebbe mutuato, pure con modifiche e integrazioni, dall’alfabeto greco calcidese usato a Cuma. Secondo il Devoto, invece, l’alfabeto greco sarebbe giunto direttamente a Roma nell’VIII secolo a.C. grazie ai contatti commerciali con Taranto, colonia dorica, e con Cuma, colonia ionica; in effetti, nei reperti più antichi, la scrittura è orientata verso destra, ma in qualche caso è bustrofedica. L’alfabeto calcidese ha più segni di quanti ne richieda la lingua latina, infatti “tre erano superflui, il theta, il phi e il khi, che sono stati adoprati ad indicare numeri” (19a). La prima delle tre lettere ha la forma di un cerchio con una crocetta al suo interno, la seconda è un cerchio tagliato da un tratto verticale, mentre l’ultima è una X.

Gli Etruschi, ricevendo per conto loro l’alfabeto greco, l’avrebbero poi trasmesso ad altri popoli della penisola, fra cui gli Umbri. Secondo Tacito, gli Etruschi avrebbero appreso l’alfabeto greco da Demarato Corinzio. Le ricerche hanno appurato che in Italia, anteriormente al 1000 a.C., esiste un alfabeto sillabico analogo al lineare A e B del tempo miceneo. La leggenda che Evandro sia giunto in Italia in tempi anteriori alla guerra di Troia dà un certo fondamento alla teoria dell’introduzione dell’alfabeto sillabico.

La teoria della derivazione delle cifre romane da uno dei due sistemi numerali greci zoppica alquanto. Secondo Ifrah, i segni numerali degli Etruschi e dei Romani hanno origini molto lontane, nella pratica dell’intaglio e delle tacche. In Europa, i più antichi intagli conosciuti, su osso, risalgono a 20.000-30.000 anni fa. Lo scarso numero di reperti e il contesto del ritrovamento rendono difficile l’interpretazione di questi segni.