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passati oltre la cinta riservata, intorno alla quale pigiavasi l’immensa turba. Essi erano accompagnati dai membri del Gun-Club e dalle deputazioni mandate dagli Osservatorî europei. Barbicane, freddo e calmo, impartiva tranquillamente gli ultimi ordini. Nicholl, colle labbra strette, le mani incrociate dietro il dorso, camminava a passo fermo e misurato. Michele Ardan, sempre spigliato, vestito da perfetto viaggiatore, colle uose di cuoio, il carniere al fianco; liberissimo ne’ suoi larghi vestiti di velluto marrone, collo sigaro in bocca, distribuiva sul suo passaggio calorose strette di mano con una prodigalità principesca. Egli era inesauribile di vena, d’allegrezza; rideva, scherzava, faceva de’ tiri da biricchino al degno J. T. Maston; in una parola mostravasi «francese,» e, quello che è più, «parigino» fino all’ultimo secondo.

Sonarono le dieci. Il momento di prender posto nel proiettile era venuto, e la manovra necessaria per discendervi, le lastre di chiusura da invitare, lo sgombro della grue e della impalcatura inclinata sulla boccaccia della Columbiad, esigevano un certo tempo.

Barbicane aveva regolato il cronometro coll’approssimazione di un decimo di minuto sopra quello dell’ingegnere Murchison, incaricato di dar foco alle polveri col mezzo della scintilla elettrica; i viaggiatori rinchiusi nel proiettile potrebbero così seguire coll’occhio l’impassibile ago che segnerebbe l’istante preciso della partenza.

Il momento dei saluti era giunto. La scena fu