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capitolo vii. 91

dea delle anticamere, perciò tacque, ed accortosi che una brigata di gentiluomini radunata in fondo presso di gran finestroni che davan sul mare, lo andava squadrando, si pose, per atteggiarsi in qualche modo, a passeggiare osservando le antiche pitture ond’erano piene le mura. Così a poco a poco si venne loro accostando naturalmente: chi sa, pensava, che non trovi da far bene anche qui! Alla fine colse distrattamente l’occasione d’incastrar qualche parola fra i loro discorsi, e, dopo pochi minuti, era divenuto anch’esso uno della brigata.

Quella fortuna che i galantuomini invocano quasi sempre inutilmente, lo servì meglio che non s’aspettava. Osservando con sottile sguardo quei signori, notò fra gli altri un uomo sui cinquant’anni, alto, smilzo, con una spalla che usciva leggermente fuori di simmetria, il quale teneva cinto uno spadone che gli alzava dietro il gabbano, e dava per gli stinchi a chi gli si era accosto, mentre s’andava centinando per istrisciar inchini e far l’uomo necessario ed intrinseco di ciascuno, e principalmente di coloro che erano di maggior riguardo. Le ciglia che s’alzavano in arco sino a mezza la fronte, e due occhi bigi, tondi ed ammirativi, davano al suo viso magro l’espressione della curiosità unita alla dabbenaggine; e questa qualità appariva poi più spiccata in un sorriso perenne di compiacenza col quale accompagnava tutti i suoi discorsi. Quest’uom dabbene era D. Litterio Defastidiis, podestà di Barletta, l’uomo più curioso, più vano, più stucchevole del mondo.

D. Michele che s’intendeva di fisonomie, conobbe tosto che avea trovato il fatto suo. Gli s’accostò, e con modi cortesi e schietti, che, quando voleva, sapeva usare ottimamente, appiccò seco ragionamento. Il podestà non finiva mai un discorso senza la lepidezza obbligata: (di quelle tali che il nostro lettore conosce sicuramente, se è stato in qualche paesetto