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42 | ettore fieramosca |
coglieva il debol suono della campana che annunciava l’ave maria del giorno, ed era tanto attento che non udì la voce d’Inigo, dal quale era chiamato in cortile: questi non ottenendo risposta, salì.
— Dopo una giornata come quella di ieri, — disse entrando sul terrazzo, — non t'avrei creduto alzato prima del sole.
Chi ebbe mai pieno il cuore d’un solo pensiero grande e bollente, sa quanto potè esser grato a Fieramosca il venir colto in quello e costretto a lasciarlo. Si volse con un viso che non celava l’animo suo interamente, e quasi Inigo s’avvedea d’esser giunto importuno. Ma l’animo d’Ettore era troppo giusto ed amorevole per accagionare il suo amico di questo disturbo involontario. Senza dar risposta precisa, se gli fece incontro, gli strinse la mano, ed alla fine ritornando in sè del tutto, disse piacevolmente:
— Che buon vento mi ti conduce a quest’ora?
— Ottimo vento; e ti reco tal nuova che m’avrai da dar la mancia. Perciò appena ho aspettato il giorno, ed eccomi a portartela. Sempre ho avuto invidia alla tua virtù: oggi debbo averla alla tua fortuna. Beato te, Ettore mio! T’è serbata dal cielo tal impresa d’onore che t’avresti comprata, son certo, ad alto prezzo. Ebbene ti capita innanzi senza nè spesa nè fatica. Sei proprio nato vestito!
Fieramosca condusse in casa il suo amico, e fattoselo sedere in faccia stava aspettando che gli annunziasse questa gran fortuna. Fu da lui brevemente informato di quanto era occorso la sera innanzi, del modo col quale egli avea preso le parti degl’Italiani, e della sfida proposta. Quando venne a riferire le insolenti parole di La Motta, e benissimo le seppe dire, balzò in piedi l’animoso Italiano, percotendo su una tavola col pugno chiuso e cogli occhi scintillanti di fierissima allegrezza.