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capitolo ii. 29

tempo stabilito. Tutto ciò corse al pensiero d’Inigo, e le parole di La Motta gli movevan la stizza, mal sofferendo che i poveri Italiani, traditi e malmenati dai Francesi, fossero da questi medesimi trattati da traditori e coperti di vituperi. Stava perciò in procinto di dirgli il fatto suo; ma quegli accorgendosi che le sue parole non erano favorevolmente accolte, aggiunse:

— Voi venite di Spagna da poco tempo, signori, e non sapete ancora che razza di canaglia siano gl’Italiani; voi non avete avuto a far nè col duca Lodovico, nè col papa, nè col Valentino, che prima ci ricevevano a braccia aperte, e poi cercavano di piantarci il pugnale nelle reni. Ma a Fornovo si sono accorti che cosa può fare un pugno di brava gente contra un nuvolo di traditori: ed il Moro il primo è stato preso nelle sue reti. Scellerato! se non avesse altro delitto che quello della morte di suo nipote, non basterebbe forse questo solo a farlo il più infame degli assassini?

— Ma, — disse Correa, — suo nipote era infermiccio e di poco senno, e si vuole sia morto naturalmente.

— Naturalmente, come tutti coloro ai quali vien dato un veleno. De Forses e De Guignes lo sanno, che erano anch’essi alloggiati come me nel castello di Pavia. Il re andò a visitare la povera famiglia di Galeazzo (e tutto questo lo tengo dalla bocca di Filippo de Comines al quale fu raccontato dal re stesso). Il Moro lo condusse per certi passaggi oscuri, in due camere basse ed umide che guardavano le fosse del castello; trovò il duca di Milano colla moglie Isabella ed i figli. Questa si gettò ai piedi del re pregandolo per suo padre, ed avrebbe voluto pregarlo anche per sè e pel marito, ma quel traditore del Moro era presente: il povero Galeazzo pallido ed estenuato poco disse, e pareva sbalordito dall’enormità della sua disgrazia: già aveva nelle vene il veleno che lo am-