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capitolo xviii. 269

e un altro, e un altro, ed era in letto già da più ore senza che gli fosse riuscito di chiuder gli occhi un momento. Tutto il fatto di Ginevra, del quale s’era dato pace in parte sulla fede di Brancaleone, gli si mostrò nuovamente pieno di ombre e di sospetti, mille timori incerti gli s’affollarono sul cuore: che cosa sarà, pensava, tutto questo mistero? E non l’ho da sapere nè pur domani! Che Brancaleone mi volesse ingannare?

Un momento persino fu per maledire in cuor suo la disfida; ma il pensiero venne rispinto con isdegno prima che fosse interamente formato.

— Oh! vergogna, vergogna, disse alzandosi a sedere sul letto, come può cadermi nell’animo tanta viltà!… Non son più quel d’una volta? Che direbbe Ginevra se mi vedesse tanto malamente mutato, e tanto freddo ai pensieri che un tempo mi facevan correr fuoco per le vene?

E con queste riflessioni gli venne tant’ira di sè medesimo, che s’alzò infuriato, e rivestitosi, chè ad ogni modo, non potendo dormire, il letto gli riusciva insoffribile, uscì sul terrazzo; sedutosi, come spesso soleva, sul muricciolo sotto la palma, dispose d’aspettar ivi l’alba che non era molto lontana.

La luna pallida e scema si specchiava appena nel mare. Lontano forse cinquecento passi a mano manca sorgeva la rôcca, che a quell’ora poco potendosi distinguere ne’ contorni, si mostrava come una gran massa bruna, e solo i merli posti in cima alle torri apparivano un po’ distinti sul cielo. Ettore guardava sospirando quelle mura, pensando a chi v’era rinchiusa, ed ogni tanto gli sembrava sentire come un lontano mormorio di salmeggiare alternato. Ma era tanto discosto, che gli pareva e non gli pareva: ad una finestra, che per esser sul fianco del castello egli non poteva vedere che di scorcio, v’era lume e non