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capitolo ii. 23

pore hanno le stoccate di questo barone. — Poi dirigendo il discorso a La Motta:

— M’accorgo un po’ tardi che siete disarmato: eccovi la mia spada (e scingendola, la pose al fianco del suo prigione); sarebbe gran torto se un braccio come il vostro non trovasse un’elsa dove appoggiarsi. Terrete Barletta per prigione sino a cambio o riscatto. La vostra parola cavaliere?

La Motta stese la destra a Paredes, che la prese e soggiunse.

— Pei vostri compagni sia lo stesso patto. Non è vero? — E ciò disse volto a Correa e ad Azevedo, due uomini d’arme che avean fatti prigioni i compagni di La Motta. Risposero che eran contenti, ed ambedue colla medesima cortesia toltesi d’accanto le spade le cinsero ai baroni francesi.

— In tavola, signori, — gridò in quella Veleno, ponendo in mezzo al desco un grave catino, ove giaceva la metà dell’agnello attorniato da cipolle e legumi, e due gran piatti all’estremità pieni d’insalata; e l’apparire della vivanda non fu meno possente della voce dell’oste a chiamare a sè l’affamata adunanza. Tutti con gran premura, spostando e rimettendo le panche, in un momento furono seduti, e all’opera; e per alcuni minuti non s’udì parola, ma solo uno strepito di piattelli, bicchieri e posate percosse.

Solo, in capo tavola, sedeva Diego Garcia, e da’ suoi lati avea fatto porre La Motta e de Guignes. Scalcando con una gran daga, in un lampo ebbe fatto in pezzi quell’animale, e divisolo fra i convitati. Il suo stomaco di ferro, servito ottimamente de due file di denti bianchissimi e forti da non temer paragone, si trovò dopo alcuni minuti racquetato se non satollo. Non gli rimase un sol osso sul piattello, poichè nessun mastino potea dirla seco per stritolarli e ridurli in polvere. Finita la pietanza, empiè i bic-