Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta. |
capitolo xv. | 203 |
ponendo mano alla spada, coprendosi collo scudo che uno degli scudieri gli avea presentato, mentre l’altro gli allacciava l’elmo, veniva ad assalire il drago. Ma questo uscendo dalla caverna e vomitando fiamme si difendea così bene che, dopo una battaglia di pochi minuti, Giasone dovette rinunziare all’impresa. I suoi compagni allora con molte preghiere l’esortavano a servirsi degli incanti, ed egli così facendo riusciva ad assopire il dragone, e spiccava il vello senza contrasto. Ciò fatto ritornava Medea sollecitando tutti per riporsi in nave con essolei: si udiva allora nella terra dar nelle trombe e sonar cembali, chiarine ed altri stromenti moreschi. Poco dopo usciva un giovane a cavallo in abito saracino a sfidar Giasone, che accettava l’invito ed in pochi colpi l’abbatteva, e mentre volea salire in nave co’ suoi, sopraggiungendo Oeta colla sua baronia, e vista fuggir la figlia e a terra morto il figlio Absirto, ordinava che s’impedisse agli Argonauti di partire. Medea allora cominciava i suoi incanti: l’aria si faceva oscura, e molti uomini stranamente vestiti in sembianza di demoni scorrendo colle fiaccole finivano coll’incendiar Babilonia, e portar con loro il re e tutti i baroni, nel tempo che si scorgeva in fondo gli Argonauti andarsene liberi al loro viaggio. Così finiva il dramma.
Quelli fra i nostri lettori che troppo s’invanissero della squisitezza de’ moderni teatri, considerino che il talento, col quale oggi si sa in certi spettacoli cavar gli applausi degli spettatori, e che consiste nel disporre le cose in modo che finiscano sempre con qualche incendio o qualche rovina, o coll’Olimpo, o col Tartaro, non è nuovo nella nostra età, ma serviva già le scene, ed era apprezzato dal pubblico del millecinquecento.
La compagnia alla quale si poneva innanzi questo spettacolo, benchè composta in parte di persone non