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202 | ettore fieramosca |
na alta, complessa, di bella faccia, vestita di raso rosso con due braccia di strascico ed un capperone di velluto nero alla francese; un falcione accanto ad uso di storta, ed in mano un libro ed una verga; era Medea.
Poco stante comparve sul lido una nave, dalla quale scesero molti giovani, in abito di soldati, e fra questi uno bellissimo, tutto coperto a piastra e maglia, salvo che il capo: era Giasone; due giovani mori gli portavano l’elmo e lo scudo.
Venuto avanti, e fatta riverenza al re, cominciò costui una parlata in versi ottonarj, che forse non sonarono troppo bene all’orecchie di Vittoria Colonna, come non soneranno a quelle de’ miei lettori, e che cominciava così:
- Di cristianità venemo,
- Argonauti se chiamemo,
- Al soldan de Babilonia,
- Che Dio salvi sua corona.
e seguitando su questo metro diceva com’eran venuti per riportarne con loro il vello d’oro. A queste parole il re Oeta, dopo aver tenuto consiglio coi suoi baroni e colla figlia, rispondeva che era contento, e partendo lasciava sola Medea con Giasone. Questi cominciava tosto a vagheggiar la donna, e domandandole il suo ajuto, le prometteva di condurla in cristianità, dove l’avrebbe fatta sua sposa e gran regina. Medea si lasciava facilmente piegare e gl’insegnava certi incanti co’ quali addormentare il drago, raccomandandogli sopra ogni cosa che se voleva poterli usare, non nominasse santi, nè facesse segni di croce, le quali cose li avrebber guastati. Come fu partita, Giasone volto ai compagni diceva non essere opera di buon cavaliere combattere con incanti, e perciò voler prima tentare di vincere il drago colle armi, e