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186 | ettore fieramosca |
dell’ospizio accordatole, e raccomandando a lei la sua amica: le diceva che un motivo gravissimo l’obbligava a partirsi senza toglier commiato, e che sperava fra non molto trovarsi in parte onde avrebbe potuto darle più chiara contezza dell’esser suo.
Compiuto così quest’ultimo uffizio nulla più le rimaneva da fare al monastero, ma non voleva partire innanzi sera. Avanzava un’ora circa di giorno, e si dispose ad aspettar la notte pazientemente seduta al balcone: nè vi poteva esser per lei in quel momento modo più travaglioso di passar il tempo: se volgeva lo sguardo all’intorno della camera, la vista del piccolo involto che aveva deposto sulla tavola, e doveva esser con lei in un viaggio tanto angoscioso, le anticipava, per dir così, que’ dispiaceri: se guardava il letto rifatto come il solito dalla conversa, pensava che v’era entrata la sera innanzi per l’ultima volta, e Dio solo sapeva dove avrebbe dormito la sera vegnente. Fuori del balcone era peggio; vedeva quel tratto di mare che la separava dalla rôcca di Barletta e si ricordava quante volte aguzzando le ciglia aveva scoperta, come un punto oscuro sull’acque, la barchetta condotta da Fieramosca. Toccava ora a lei varcar quello spazio, per andare dove?