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172 | ettore fieramosca |
— Per questa ferita, impiccato sia chi me la diede, ho perduto di bei ducati, chè dovetti lasciar re Carlo, e restarmene per più mesi a Roma a farmi curare. È vero, soggiungeva ridendo, che in quell’occasione mi levai l’impaccio d’una certa moglie.... onde ci fu un po’ di male e un po’ di bene. Poi m’acconciai per aver soldo con quello sciaurato del Valenza, finchè, come Dio volle, mi son tornato coi Francesi: e con loro almeno sulla condotta non ci piove e non ci nevica, e ad ogni fin di mese snocciolano fiorini, come il banco Martelli di Firenze.
— Ma quest’elmetto, soggiungeva Brancaleone, come reggerebbe ad un buon fendente?
— Oh! rispose l’altro, di questo non ho un pensiero. Prima è acciaio di Damasco e di una tempra che non v’è al mondo la migliore, e poi ti so dire che quando in battaglia mi accorgo che mi si vuol cacciar le mosche dal capo m’ajuto collo scudo in modo che è bravo chi m’arriva; vedi (e gli mostrava lo scudo e la correggia colla quale s’attaccava al collo), vedi come la tengo, lunga per avere spedito il braccio.
Brancaleone non disse altro, guardò di nuovo ben bene la barbuta volgendola da tutti i lati, e facendola sonare colle nocche delle dita con un certo fare tutto suo; poscia apertala, l’adattò egli stesso al cavaliere.
In questo frattempo erasi combattuto fra i tre Spagnuoli e Bajardo nel modo che si è narrato. Questi, vinto ch’egli ebbe, venne ove Grajano appunto avea finito di armarsi, e stava per montar a cavallo. Il cavaliere astigiano disse al vincitore qualche cortese parola, e vedendo che Brancaleone non badava loro, gli domandò quanto valessero gli avversarj.
Bajardo toltisi i guanti di ferro e l’elmetto li deponeva sulla tavola asciugandosi il sudore, e diceva:
— D. Inigo de Ayala, bonne lance, foy de chevalier.