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capitolo xiii. 171

si trattenne a parlar seco mentre i suoi scudieri l’ajutavano spogliar i ricchi panni ond’era vestito per indossar farsetto e calzoni di pelle stretti alla carne, sui quali poi si adattava l’arnese.

Quello di Grajano era una bella armatura a strisce dorate sull’acciaio brunito, ed era disposto su una tavola a pezzi. L’osservava Brancaleone parte per parte con grande studio, e, preso in mano il petto per ajutare affibbiarlo addosso al cavaliere, osservò che era fatto di due lame d’acciaio, e lo giudicò impenetrabile: la panziera era doppia e d’ugual fortezza: tolse in mano i bracciali, i cosciali e gli schinieri, e come pratico conobbe che potevano resistere ad ogni prova. Mentre faceva questa rivista, un osservatore sagace avrebbe scorto sulla sua fronte un tal che di strano e nella bocca un certo ghigno; ma non v’era chi badasse a lui in quel momento. Infine restava a porre la barbuta soltanto, e Brancaleone, avendola presa e guardata, s’accorse che non corrispondeva in bontà al rimanente; domandò a Grajano se usava forse portar sotto una cuffia o cervelliera di ferro, e venendogli risposto di no, l’interrogava perchè, servendosi d’armi cotanto salde pel resto del corpo, non cercasse con precauzioni eguali di difendere il capo.

— Perchè, rispose Grajano, all’assalto di un castelluccio che valeva tre quattrini (e quel pazzo del duca di Montpensier s’era incocciato che si prendesse) mentre avevo appoggiato una scala per salire, un di quei villani abruzzesi che lo difendevano, mi lasciò cader sul capo un sasso, che venuto giù per punta ammaccò l’elmo e mi fece un buco nel capo, che si chiuderà, credo, interamente, quando vi getteranno su una palata di terra; e vedi qua!

In così dire gli prese la mano e portandosela sul capo gli facea tastare col dito una tacca in mezzo al cranio, per la quale si conosceva che non avrebbe retto una barbuta più grave di quella.