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nigo, che se fossero stati fermi non avrebbe potuto colpirlo meglio. L’elmetto mandò faville, l’asta si ruppe a due braccia dal calce, e lo Spagnolo si torse tanto sul lato sinistro ove pure gli era uscita la staffa, che quasi accennò cadere. Così l’onore di questo primo scontro rimase a Bajardo.

Seguitarono i due campioni la corsa per venirsi ad incontrar dall’altro lato; ed Inigo, gettato con istizza il troncone, arraffò nel passare un’altra lancia.

Alla seconda prova riuscirono i colpi eguali, ed Inigo in cuor suo potè forse dubitar che la cortesia del cavalier francese fosse la cagione che non gli permettesse di adoprar la sua maestria interamente. Alla terza corsa questo dubbio divenne certezza. Inigo ruppe la lancia alla vista del suo nemico, e questi gli sfiorò appena la guancia col ferro, e si conobbe che il fallo non era involontario. Sonaron le trombe e gli evviva, e gli araldi proclamarono uguale il valore dei combattenti, che andarono uniti sotto il palco di D. Elvira a farle riverenza; mentre ella gli accoglieva con parole di lode, non n’era avaro Consalvo, nè il duca di Nemours, che diceva ai campioni: Chevaliers c’est bel et bon.

Inigo era di que’ tali che in ogni altra cosa potranno esser vinti, ma non mai in generosità.

Volle perciò far palese la cortesia usatagli da Bajardo: questi colla modestia che sempre è compagna alla virtù, negava risolutamente dicendo di aver fatto il potere. A questa gara di cortesia, disse Consalvo: — Dalle vostre parole, cavalieri, può nascer il dubbio chi di voi oggi abbia meglio corsa la lancia, ciò che però non è dubbio, si è che non sono al mondo i più nobili, i più generosi di voi.