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D. Inigo Lope de Ayala, e D. Ramon Blasco de Azevedo.

Fattosi avanti l’araldo e, proclamati questi nomi, proibì, come era costume, agli spettatori di parteggiar nè con parole nè con fatti. Gli scudi degli Spagnuoli vennero appiccati sotto il palco di Consalvo co’ loro nomi scritti in lettere d’oro, mentre essi dopo aver fatto il giro della piazza si erano andati a porre in fondo, vicini ad un gran stendardo ove si vedevano le torri ed i leoni di Castiglia e le sbarre d’Aragona, e che, tenuto da un araldo riccamente vestito, s’aggirava sventolando sul suo capo.

Il premio destinato al vincitore era un elmetto riccamente guernito, con una vittoria d’argento per cimiero, che in una mano teneva una palma d’oro, e coll’altra reggeva il pennacchio dell’elmo: opera di cesello di mano di Raffaello del Moro, valente artefice fiorentino. Stava innalzato sulla punta d’una lancia fitta presso l’entrata onde erano venuti i tre baroni spagnuoli.

Bajardo, lo specchio e l’onore del mestier dell’armi, fu il primo a comparire in lizza, cavalcando un bel bajo di Normandia balzano di tre piedi coi crini neri; le belle fattezze del destriere erano, secondo l’uso del tempo, nascoste da una grandissima gualdrappa che lo copriva dalle orecchie alla coda, tinta di un verde chiaro attraversato da sbarre vermiglie, coll’impresa del cavaliere ricamata sulla spalla e sul fianco, e finiva da piede in drappelloni che giungevano al ginocchio del cavallo. Sulla testa, e sulla groppa svolazzavano mazzi di penne de’ medesimi colori, che si vedevano pur ripetuti alla banderuola della lancia, ed al pennacchio dell’elmo. La struttura del cavaliere non aveva in sè nulla di straordinario, ed anzi, per quanto si poteva giudicare sotto l’arnese, non annunziava il vigore ordinario agli armeggiatori di quell’epoca. Ven-