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capitolo xii. 163

nazza, e si morse talmente il labbro inferiore che si tinse il mento di sangue.

Il toro vedendo che gli si chiudeva quella strada all’assalto, s’arretrò, e, preso del campo, gli si lanciò di nuovo addosso con maggior furia. Garcia si sentiva saltar la febbre per vergogna d’aver fallato: in un momento in cui volse l’occhio ai palchi vide, come un baleno, il volto di La Motta composto ad un riso di scherno; e questa vista gli mise addosso un furore tanto smisurato, e tanto gli crebbe le forze, che, alzata la spada quanto potè, la rovesciò sul collo del toro con tal rovina che l’avrebbe tagliato se fosse stato di bronzo. Il colpo in quel disordine non cadde dritto. Tagliò prima un corno netto come un giunco, poi il giaco e le vertebre, e si fermò alla pelle della giogaja, per la quale il capo rimase ancora attaccato al busto che si rovesciò nella polvere.

A questa incredibil prova s’alzò un grido universale di lode tanto romoroso ed istantaneo che parve uno scoppio di tuono. Paredes si lasciò cader lo spadone ai piedi, rimase ansante per pochi momenti, ed il vermiglio del volto si cangiò in un pallore che però non fu lungo. Tosto l’attorniarono i suoi con festa. Chi ammirava lui, chi guardava lo spadone, chi l’ampia ferita, e la nettezza del taglio, ed intanto gli stromenti facean sentire suoni di vittoria.

Lo Spagnuolo era uscito d’impegno: toccava ora a La Motta. Il bel colpo del suo antagonista lo metteva in pensiero; non poteva sperar d’agguagliarlo: e se anche riusciva (cosa molto dubbia) a troncare la testa al toro a collo nudo, sempre avrebbe avuta minor lode, e la sua inesperienza in questo genere di combattimento gli faceva prevedere che neppure saprebbe far tanto. In ogni modo conobbe non avrebbe saputo con onor suo uscir da questo passo, ed il dispetto che ne provava lo cavò di cervello.