Pagina:D'Azeglio - Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta, 1856.djvu/128


capitolo x. 125

deva perciò egualmente obbligato ad esser il custode ed il difensore de’ ducati, dei fiorini, e dell’avere degli abitanti di quel contado o di chi passava per esso. Come però alla scoperta non poteva andare a pescare nelle borse altrui, aveva (per servirci d’una voce moderna) preso un carato nella mercanzia esercitata da Pietraccio, e gli faceva spalla ajutandolo co’ suoi quando l’impresa lo domandava; nascondeva danari, robe e persone eziandio ove fossero tali da poterne sperare una grossa taglia.

Queste operazioni si facevano con tali cautele che le persone offese a tutti avrebbero data la colpa fuorchè a Martino che era soltanto riputato il primo bevitore del paese.

In mano di costui era incappato D. Michele, il quale aveva passata la notte fantasticando senza mai poter indovinare ove fosse. Alla prim’alba sentì tre colpi di artiglieria, quali si usavano sparare ogni mattina dalla rôcca di Barletta; s’ajutò alla meglio, e giunse ad arrampicarsi alla feritoja dalla quale entrava il lume, ma lo spiraglio era coperto in modo dall’edera che non si vedeva per quello altro che un picciol tratto di mare. Soprastato così un poco, venne a passare un battello pieno d’ortaglie, e conobbe quello che lo conduceva per l’ortolano di S. Orsola; allora fu quasi certo di trovarsi nel fondo della torre che ne difendeva l’entrata.

Appena sceso dal luogo della sua scoperta, s’aprì la prigione, e ne fu tratto da due robusti mascalzoni che lo fecero salire nella camera del capitano.

S’era questi alzato di poco e stava di tutto scinto a sedere sulla sponda del suo lettuccio avanti ad una tavola coperta ancora in disordine degli avanzi d’una gozzoviglia. Un rastrello che girava tutt’intorno al muro era guarnito di picche, d’archibugi a forcina, di petti di ferro e d’altre armature. Guardò D. Miche-